Cosʼè la poesia – Sfide per giovani poeti di Lawrence Ferlinghetti, Mondadori, 2002
Un libro che non mi stanco mai di rileggere e che cito spessissimo quando scrivo qualcosa che riguarda la poesia in generale è Cosʼè la poesia – Sfide per giovani poeti di Lawrence Ferlinghetti (titolo originale What Is Poetry?, del 2000, nella traduzione di Stefania Benini, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2002), grande poeta contemporaneo (nato nel 1919 a New York) e maestro della Beat Generation.
Nelle pagine di questo piccolo libro (poco più di cento pagine), Ferlinghetti, in una prima parte, definisce la poesia con una serie di fulminanti affermazioni che vanno oltre ogni sentito dire e ogni classica definizione accademica.
Chi ama la poesia non può non riconoscere la verità di queste immagini che esaltano la forza creatrice e vivificante della parola poetica: «Poesia è/ notizie dalla frontiera/ della coscienza» […] «Sia poesia emozione/ ritrovata in emozione» […] «Poesia è lotta continua/ contro silenzio, esilio e inganno», «Il poeta è un barbaro sovversivo/ alle soglie della città/ che sfida costantemente/ il nostro status quo». Ma anche chi non ha dimestichezza con il mondo della poesia non può rimanere indifferente leggendo queste pagine e i consigli che lʼautore dà ai giovani poeti (nella seconda parte del libro): «Resistete molto, obbedite meno» […] «Liberate segretamente ogni essere in gabbia che vedete» […] «Mettete in discussione tutto e tutti… », «Siate poeti, non affaristi. Non soddisfate, non assecondate, specialmente non un possibile pubblico, lettori, redattori o editori» […] «Essere poeti a sedici anni vuol dire avere sedici anni, essere poeti a quaranta vuol dire essere poeti. Siate entrambe le cose».
In questa edizione di cui ho mostrato la copertina, sono state anche inserite, , tre pagine intitolate Storia dellʼaeroplano. Si tratta di una lunga poesia scritta (insieme ad altre) in seguito allʼattentato dellʼ11 settembre 2001: sono versi fortemente politici con i quali il poeta ribadisce la sua vocazione radicalmente pacifista. Emerge infatti una forte contestazione della politica aggressiva e militarista degli Stati Uniti e la condanna di ogni tipo di terrorismo; i passi che cito sono rispettivamente l’inizio e la fine della poesia: «I fratelli Wright dissero che pensavano di aver inventato/ qualcosa che poteva portare pace sulla terra» […] «E un vento di ceneri soffia sulla terra/ E per un lungo momento eterno/ è caos e disperazione/ E seppelliti amori e voci/ Grida e sussurri/ Riempiono lʼaria/ Ovunque».
Davvero un piccolo grande libro. Lo consiglio a tutti, soprattutto a chi è un poʼ titubante nellʼaccostarsi alla poesia.
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Alfonso Berardinelli, Hans Magnus Enzensberger, Che noia la poesia – Pronto soccorso per lettori stressati, Einaudi, Torino, 2006
Questa volta non voglio consigliare un libro di poesie, ma un libro sulla poesia in generale, un saggio dal titolo accattivante: Che noia la poesia. “E infatti…!” penseranno in molti (anch’ io lo pensavo a dire il vero, fino a qualche anno fa, prima di riscoprire la poesia e di esserne conquistata). Il sottotitolo però è questo: Pronto soccorso per lettori stressati.
Quindi ci viene lanciato un salvagente: un modo per cominciare a guardare la poesia da un punto di vista differente.Gli autori, Alfonso Berardinelli (uno dei saggisti italiani più originali e polemici) e Hans Magnus Enzensberger (poeta e saggista tedesco contemporaneo), cercano di rispondere a questa domanda: perché tanta gente non sopporta la poesia?
La prima cosa da fare, ci dicono i due autori, è cercare di ricominciare da capo: dimenticare quello che abbiamo imparato a scuola e rileggere la poesia cercando di sentirne il ritmo, la musica dei versi e delle parole, anche quelle più comuni.
Ci mostrano come funziona una poesia attraverso la lettura decisamente inusuale di moltissimi testi poetici; ci fanno scoprire che la poesia è capace di fare, con le parole, delle acrobazie incredibili, che può dire moltissimo in due versi o, anche, quasi nulla in molte strofe; che la poesia può far sognare, riflettere, ridere, può raccontare, scherzare, dialogare.Che noia la poesia è un libro di tecnica poetica accessibile a tutti: vengono spiegati con semplicità e anche ironia i vari giochi verbali e i metodi di composizione, vengono riportati esempi di poesia eccellente e di poesia pessima e ridicola; si parla, in modo divertente ma preciso, di rime, versi liberi, strofe e di tutto quello che riguarda questo genere letterario ormai troppo poco considerato.
Alla fine, ciò che ci viene detto è (riporto dalla quarta di copertina): “… che la porta della poesia è sempre aperta: basta entrare”.
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Non solo racconti. Raymond Carver ha scritto moltissime poesie che rendono questo autore indimenticabile anche per la sua voce poetica oltre che narrativa.
Perché la poesia non era per Carver soltanto qualcosa da scrivere tra un racconto e l’altro, ma, come racconta la moglie Tess Gallagher nell’introduzione a questa raccolta, «… era la corrente spirituale da cui muoveva per scrivere i racconti».
Orientarsi con le stelle rende per la prima volta disponibili tutte le poesie (nella loro forma definitiva) di Raymond Carver. Il volume comprende infatti quattro raccolte, tre pubblicate negli ultimi cinque anni della vita dell’autore statunitense (morto a cinquant’anni nel 1988): Voi non sapete cos’è l’amore (1983), Racconti in forma di poesia (1985) e Blu oltremare (1986), più una quarta raccolta Il nuovo sentiero per la cascata, pubblicata postuma nel 1989 (e un’appendice con diciannove poesie tratte da Per favore, non facciamo gli eroi).Leggere queste poesie è ritrovare l’esperienza umana, semplicemente, in tutta la sua complessità, oltre ogni sovrastruttura. Penso che queste righe, scritte da Tess Gallagher nell’introduzione, possano rendere benissimo ciò che è possibile trovare nel libro: «Ray faceva sembrare ciò che è estatico una cosa comune, alla portata di tutti. Sapeva anche qualcosa di essenziale, che troppo spesso viene sacrificato a preoccupazioni minori: che la poesia non è semplicemente reticenza servita al posto di ciò che intendevamo dire. È un luogo dove essere aperti e riconoscenti, per fare spazio e accogliere quegli avvenimenti e quelle persone che più sono vicine al nostro cuore. “Te lo volevo dire”. E lo ha fatto.»
Per quanto mi riguarda, questo è uno di quei libri che fanno nascere il fortissimo impulso di scrivere all’autore (spesso irrealizzabile, purtroppo) per ringraziarlo.
Felicità
Talmente presto che fuori è ancora quasi buio.
Sto alla finestra con il caffè
e le solite cose della mattina presto
che passano per pensieri.
A un tratto vedo il ragazzo e il suo amico
venire su per la strada
per consegnare il giornale.
Portano il berretto e il maglione
e uno la borsa a tracolla.
Sono così felici
che non dicono niente, questi ragazzi.
Mi sa che se potessero, si prenderebbero
sottobraccio.
Il mattino è appena sorto
e stanno facendo questa cosa insieme.
Avanzano lentamente.
Il mattino si fa più luminoso,
anche se la luna pende ancora pallida sul mare.
Una tale bellezza che per un attimo
la morte e l’ambizione, perfino l’amore,
Non riescono a intaccarla.
Felicità. Arriva
inaspettata. E va al di là, davvero,
di qualsiasi chiacchiera mattutina sull’argomento.
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Izet Sarajlić, Qualcuno ha suonato, Multimedia Edizioni, 2001
Riporto alcune poesie di un poeta bosniaco straordinario: si tratta di Izet Sarajlić, che viene definito il cantore di Sarajevo e che a Sarajevo rimase sempre, anche quando, durante la guerra, avrebbe potuto fuggire: “Izet Sarajlic doveva essere maestro di lealtà civile restando a Sarajevo fino all’ultimo giorno di malora. Con i suoi versi si erano dati voce gli innamorati di due generazioni. Chi è stato responsabile della felicità, lo è pure dell’infelicità. Perciò rimase nella fila indiana, rasente i muri, davanti a un forno che aveva ricevuto la farina, davanti a una fontana che ricominciava. Qual è il compito di un intellettuale, di uno che ha un piccolo diritto di pubblico ascolto? Stare, condividere il guasto che tocca al suo popolo. La sua presenza in città era il migliore conforto per i concittadini (…)” scrive Erri De Luca nell’introduzione a Chi ha fatto il turno di notte? (Giulio Einaudi Editore, 2012). Le sue poesie sono limpide e dirette e sanno raccontare la follia della guerra attraverso parole che sfuggono la rabbia, parole a volte ironiche ma comunque cariche di umanità (“O tenerezza umana,/ dove sei?/ Forse solo/ nei libri?” si chiedeva in una poesia del 1992) e d’amore: amore per la sua città e per la compagna (struggenti sono le poesie dedicate a lei dopo la sua scomparsa, una tra tutte Quei due abbracciati, scritta nel 2000, “Quei due abbracciati sulla riva del Reno a Gothlieben/ potevamo essere anche tu ed io,/ ma noi due non passeggeremo mai più/ su nessuna riva abbracciati./ Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia). Ho scelto, tra le tantissime che avrei voluto trascrivere, alcune poesie che parlano del fare poesia.
La crisi della poesia d’amore
Avendo paura
di essere definiti fuori moda
i giovani non scrivono più
poesie d’amore.
Noi vecchi
dovremo
scriverle
per loro.
Non sarà la prima volta
che il ruolo di Cristiano
viene affidato a Cirano.1987 – 1989
*
Non abbiate fretta, ragazzi
Non abbiate fretta di fare i poeti, ragazzi.
Restate quanto più a lungo possibile nella fase prepoetica.
Essere poeti nella vita non è lo stesso che essere poeti in un racconto.
La poesia, sono le disfatte.Alla fine, vi aspettano, forse, davvero le rose,
ma per molto tempo – a destra e a sinistra – ci sono le spine.
Per la fama non abbiate fretta, restate invece giovani quanto più a lungo,
e solo quando non ne potrete più, proprio allora nascerà la poesia.1964
*
Eredità
a Josip Osti
I nostri avi ci hanno lasciato in eredità
degli Schonbrunn, dei Palazzi d’Inverno,
dei Ponts Charles,
delle Piazza San Marco,
senza menzionare
i Westminster
che rappresentano
i drammi di Shakespeare,
i romanzi di Tolstoi
o la “suite n. 3” di Bach.E noi altri,
cosa lasceremo in eredità
ai nostri discendenti?Degli snack-bar,
delle stazioni di servizio,
dei garages,
e qualche anti-romanzo.1977
*
Un lavoro terribile
ai giovani poeti
Per me voi tutti siete come figli.
Spero però che non mi riconosciate mai
come padre.Per me
sarebbe fatale uccidere l’alunno che ho dentro.
Anche a voi raccomando
di diventare maestri il più tardi possibile.È un lavoro terribile portare a termine la propria opera.
Un lavoro terribile.1988
Izet Sarajlić (Doboj 1930- Sarajevo 2002), in Qualcuno ha suonato, Multimedia Edizioni, 2001
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L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: oltre le ipocrisie (verso la libertà)
Cosa ci renderebbe liberi di poter dire, senza alcuna limitazione, tutta la verità su di noi, sui nostri pensieri più sinceri, sui nostri più profondi desideri? Solo l’irrealizzabile fatto di raccontarli senza essere più in vita, quindi il non doverci più preoccupare di ciò che dobbiamo apparire perché gli eventi, le necessità, gli altri (e molto spesso noi stessi) ci hanno imposto determinati “abiti”. Ed esattamente tutta la verità dicono i 244 personaggi dell’Antologia di Spoon River, personaggi ormai morti ma vivissimi nelle loro “rivelazioni”.
Questo libro, dal successo incredibile e che secondo Fernanda Pivano è stato il libro di poesia americana più venduto fino al momento della sua pubblicazione (1914-1916), è l’opera più famosa di Edgar Lee Masters. Nato il 23 agosto 1868, a Garrett (in Kansas, ma trascorrerà l’infanzia a Petersburg e l’adolescenza a Lewistown, Illinois), Masters svolse la professione di avvocato, anche se era stato il padre a costringerlo a seguire tale carriera, allontanandolo dagli studi a causa delle precarie condizioni economiche della famiglia. Ma il forte interesse per la cultura e la scrittura non lo abbandonò mai. Infatti, nel 1898 pubblicò un primo libro di poesie e nel corso dei dieci anni successivi espresse le sue idee libertarie in una serie di saggi e opere teatrali, scritti però con lo pseudonimo di Wallace Dexter, continuando sempre a lavorare come avvocato. Poi si accorse (cito le parole di Fernanda Pivano) “che se la vita di campagna era molto diversa da quella di città, non cambiavano granché gli esseri umani […] che le passioni sono identiche in tutti, anche se in qualcuno sono più abilmente soffocate o nascoste. E gli venne in mente di raccontare la storia del suo villaggio […]. Ma non sapeva decidersi a scegliere la forma in cui raccontarla”(cfr. l’introduzione all’edizione italiana dell’Antologia di Spoon River, Einaudi, 2009, p. XII). È il direttore di un giornale, il Mirror di St. Louis, a suggerirgli di leggere l’Antologia Palatina, una raccolta di epitaffi ed epigrammi greci, ricchi di passioni e intimità. Nasce così in Masters l’idea di far parlare proprio sotto forma di epitaffi, quindi semplici iscrizioni tombali, ciascun abitante di un immaginario villaggio, anche se “immaginario” non lo era completamente: fu infatti in seguito ai racconti della madre sugli eventi tristi e fallimentari dei suoi vecchi conoscenti che scrisse la prima poesia, La collina (dove immagina tutti gli abitanti sepolti uno accanto all’altro “Tutti, tutti, dormono sulla collina…“), e dopo quella ne seguirono molte altre. Quindi quasi per scherzo scelse il titolo “Antologia di Spoon River” (Spoon è il fiume che attraversa la cittadina di Lewistown e per questo spesso nelle guide è questa città a essere definita la patria di Masters, anche se in realtà furono Petersburg e il fiume Sangamon a ispirare il nucleo fondamentale dell’antologia) e inviò il tutto al giornalista di S. Louis che pubblicò subito le poesie con un secondo pseudonimo (Webster Ford). Le poesie continuarono a uscire sul Mirror dal maggio del 1914 fino alla fine dell’anno e ottennero un successo tale da costringerlo a rinunciare allo pseudonimo. E anche l’intera antologia, pubblicata in un unico volume nel 1916, continuò ad avere un successo così grande da consentire a Masters di lasciare la professione di avvocato (nel 1920) vivendo per qualche anno dei proventi del libro e della sua attività di scrittore. Le altre sue opere (molte in versi, alcune opere teatrali e sei studi biografici tra cui quelli su Walt Whitman, Mark Twain e Abraham Lincoln), non ebbero però la fortuna dell’Antologia, e in seguito Masters, per sopravvivere, dovette ricorrere all’aiuto di amici, per poi morire in povertà (nel 1950).
In Italia questo testo è stato pubblicato la prima volta da Einaudi, nel 1943, nella traduzione di Fernanda Pivano (e da allora vi sono state sessantadue edizioni e sono stati venduti più di cinquecentomila esemplari). Era però stato scoperto da Cesare Pavese (tramite un amico italo-americano che spesso gli passava libri di autori introvabili in Italia) che se ne innamorò e convinse Einaudi a pubblicare il manoscritto della traduzione fatta appunto dalla Pivano (anche se per ottenere l’autorizzazione dalle censure di quegli anni, dovette richiedere il permesso di pubblicazione per l’antologia di un improbabile santo, “Antologia di S. River”, titolo con cui effettivamente venne pubblicata in un primo momento).
È questa la storia del libro di Edgar Lee Masters, letto e amato da tantissime persone e il perché lo si può capire anche dalle parole della stessa Fernanda Pivano: “Non c’è dubbio che per un’adolescenza come la mia, infastidita dalla roboanza dell’epicità a tutti i costi in voga nel nostro anteguerra, la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e impastati soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza. […] la rivolta al conformismo, la brutale franchezza, la disperazione, la denuncia della falsità morale, l’ironia antimilitarista, anticapitalista, antibigottista: la necessità e l’impossibilità di comunicazione. In questi personaggi che non erano riusciti a farsi ‘capire’ e non avevano ‘capito’, dal loro dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile, scaturiva un fascino sempre più sottile…”.
Leggendo i versi dell’Antologia si intuisce facilmente la volontà di Masters di portare nella poesia la vita “vera” con tutte le sue sfaccettature, raccontandoci quindi ogni aspetto umano, più o meno luminoso, senza nascondere nulla: in questo modo i personaggi, che dovrebbero essere morti, in realtà ci appaiono vivi di una vita finalmente sincera. Gli epitaffi che leggiamo in questo libro abbattono in modo semplice e al contempo magistrale le ipocrisie di ogni tempo. Ecco perché, forse, la lettura dell’Antologia di Spoon River risulta sempre un’esperienza coinvolgente e attuale. Tra tutte le poesie dell’antologia, è impossibile non citare almeno Il suonatore Jones, che Fabrizio De André trasformò in una canzone, assieme ad altre otto poesie, nell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo del 1971.
Jones è l’unico personaggio, in questa raccolta di canzoni, a cui De André lascia il nome. Se infatti nelle poesie originali di Edgar Lee Masters ogni personaggio ha un nome e un cognome, i titoli delle canzoni di De André sono generici (Un medico, Un giudice, Un malato di cuore, e così via) sottolineando in tal modo l’universalità di alcuni comportamenti umani che si possono ritrovare in ogni luogo e in ogni tempo. Ma, soprattutto, Il suonatore Jones (personaggio con cui si chiude l’album) rappresenta l’unica anima che si è salvata (e così intendeva lo stesso Masters): è il solo su quella collina a non avere rimpianti di alcun tipo, perché è il solo a non aver rinunciato alla felicità. Per tutta la vita egli ha fatto quello che sentiva di voler fare: suonava come se fosse una missione e proprio in questo modo si è salvato. Jones è quindi il simbolo di chi ha il coraggio di essere sé stesso fino in fondo e non rinuncia a scegliere di essere libero. Il suonatore Jones è la speranza che Masters ci lascia.
Il suonatore Jones
(E. L. Masters)
La terra ti suscita,
vibrazioni nel cuore: sei tu.E se la gente sa che sai suonare,
suonare ti tocca, per tutta la vita.
[…]
Finii con le stesse terre,
finii con un violino spaccato —
e un ridere rauco e ricordi,
e nemmeno un rimpianto.
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Alla linea, di Joseph Ponthus, Bompiani, 2022, traduzione di Ileana Zagaglia
Alla linea è un romanzo-poesia (autobiografico) che racconta, in versi liberi, nudi e concitati, la realtà e i sogni di un operaio interinale, che lavora prima nella conservazione del pesce e in seguito in un mattatoio, in Bretagna.
È un libro che colpisce, più di un pugno allo stomaco: fa male; ma regala anche dolcezza ed emozione quando l’autore scrive della sua vita parallela, sorretta dall’amore e dalla letteratura. Un libro di pura, potentissima poesia.
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Entrando in fabbrica
Naturalmente immaginavo
L’odore
Il freddo
Il trasporto di carichi pesanti
Il disagio
Le condizioni di lavoro
La catena
La schiavitù moderna
Non ci andavo per fare un reportage
men che meno per preparare la rivoluzione
No
La fabbrica è per i soldi
Un lavoro per campare
Come si dicembre Perché mia moglie è stufa di vedermi buttato sul divano in
attesa di un lavoro nel mio settore
E quindi sarà
L’agroalimentare
L’agro
Come dicono
(. . .)
29.
(. . .)
Hai finito
Arrivederci
Piccolo interinale
Non ti abbiamo cazziato troppo
Non hai preso giorni di malattia
O peggio per un infortunio
La produzione non si è fermata
Arrivederci
Fabbrica
Arrivederci
Soldi
I soldi da andare a guadagnare raschiare spalare con le braccia la schiena i reni i denti stretti gli occhi gonfi e rossi le mani ormai callose e ruvide la testa che deve mantenere la volontà fanculo.
Arrivederci
Quasi non vedo l’ora già di
Tornare in fabbrica
Come se
Non fossi ancora arrivato
Al limite estremo dello sfinimento
Al limite del lavoro
Al limite del mio lavoro
Sulla fabbrica e me stesso
“Hai finito
arrivederci”
Così ha detto il capo
Uno dei capi in realtà
Non sono i capi che mancano
È il lavoro che manca
Sono i soldi che mancano
Finché ci saranno lavori da interinale
Non sarà possibile mettere ilpunto finale
Dovrò tornarci
Alla linea
30.
Mia adorata moglie
Quando leggerai queste parole
Sarò senza dubbio a letto
Crollato
Sognando chissà quale avventura
Tornerai a casa
E troverai la casa come
So metterla in ordine io
Il computer con la tastiera oggi un po’ devastata dalle zampe
del cucciolo che mi hai regalato a Natale e che siamo andati a
prendere al canile
Mi sento come D’Artagnan
Non ricordo se è all’inizio di Vent’anni dopo o di Bragelonne
In attesa di una nuova missione
Che rimugina
E morde il freno nei corridoi del Louvre
Come me qui nella nostra casa di Lorient
Niente lavoro
Che aspetto un posto
E mi arrabbio
Come un cane
E piango
Per questi giorni di merda
Senza lavoro
Senza fabbrica
Oggi
Ho visto sul sito dell’ufficio di collocamento
Un annuncio per un educatore su una barca
Ho risposto naturalmente
Ho vantato la mia esperienza con i gamberetti e il pesce
Anche se non serve a niente
Spero di lavorare
Su questa barca o in fabbrica
Di portare un po’ di soldi
Aspetto il lavoro
Aspetto la partenza o l’arrivo della barca
Ti aspetto
Joseph Ponthus (Reims, 1978-2021), da Alla linea, Bompiani, 2022, traduzione di Ileana Zagaglia
Pignolerie di Alberto Piancastelli, Quodlibet Compagnia Extra, 2020
I poeti (classici e moderni), con il loro continuo borbottio metaforico e con le loro immagini assurde, proprio non ti vanno giù? Pensi che poeti e poetastri si siano sempre fatti, e ancora continuino a farsi, dei grandissimi film mentali? Adesso puoi vendicarti con garbo leggendo un libro insolito e divertentissimo. Alberto Piancastelli in Pignolerie, con un’ironica, meticolosa e logicissima pignoleria, appunto, ci fa divertire facendo scientificamente “a pezzi” le poesie più famose e studiate dei poeti classici italiani. Un libro gustosissimo…anche (o soprattutto) per chi, in fin dei conti, i poeti non li detesta.
***
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando…»Leopardi sale su un colle per contemplare il panorama, ma una siepe gli impedisce di vedere bene l’orizzonte.
Una persona normale si sarebbe spostata di qualche metro e sarebbe finita lì. Ma Leopardi è Leopardi. Non si sposta e ci informa che la siepe non gli copre del tutto la vista dell’orizzonte, ma “tanta parte”.
Tanta parte quanta?
Difficile dirlo… tanto, poco… sono termini che non definiscono quantità certe.
La parte esclusa, per esser “tanta”, dovrebbe essere almeno la maggioranza dell’orizzonte, ma non la totalità.
Quindi, anche solo un punto percentuale più del 50%, fino a un massimo del 99%.
Un 1% minimo dell’orizzonte bisogna che Leopardi riesca a vederlo, se no avrebbe detto “da tutto l’orizzonte il guardo esclude”. In tal caso la poesia l’avrebbe potuta intitolare direttamente “Siepe”, ma non credo avrebbe avuto lo stesso successo. (…)
Leopardi pare però rammaricarsi in particolare del fatto che la siepe gli escluda la vista dell’ultimo orizzonte. Di questo non serve che si rammarichi, perché l’orizzonte non poteva essere l’ultimo (…) L’ultimo orizzonte può esser solo il più lontano fra tutti quelli che fanno parte di una serie. (…) Non è che dal colle Leopardi potesse vedere trenta orizzonti, e quindi ce n’era un primo, un sesto e un ultimo impallato dalla siepe. (…) Per poter descrivere l’ultimo orizzonte però avrebbe potuto scrivere L’Infinito dalla cima dell’Everest nel 1819. Ipotesi azzardata, ma che non possiamo escludere a priori. In fondo amava isolarsi, e in Himalaya avrebbe trovato le condizioni ideali per esprimere la sua capacità di astrazione metafisica.
Immagino gli scettici:
“Ma figurati, non è possibile, non aveva il fisico né l’abbigliamento adeguato, le bombole di ossigeno…”.
Lascia stare! Leopardi non usava parole a vanvera. L’ultimo orizzonte poteva vederlo solo da là. Come ci sia salito è un’altra storia.
Piuttosto la siepe.
Che tipo di siepe potrebbe attecchire sull’Everest? (…)
Alberto Piancastelli, da Pignolerie (pp. 131-136), Quodlibet Compagnia Extra, 2020
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Poesia come ossigeno. Per un'ecologia della parola, di Antonella Anedda ed Elisa Biagini, a cura di Riccardo Donati, ChiareLettere, 2021
Il libro è un dialogo tra due poetesse (Antonella Anedda ed Elisa Biagini) e un critico (Riccardo Donati) sul senso di scrivere e leggere versi oggi: “Il libro che state per leggere intende riflettere su questa funzione specifica della poesia: non affermare certezze, ma creare ponti che uniscano persone magari anche molto lontane tra loro nei secoli, nello spazio, nella mente, nelle storie di vita” scrive Donati nell’introduzione, e in chiusura della stessa afferma: “La poesia è inutile, dichiarava Montale ricevendo il Nobel. Una virtù, l’inutilità, che in un tempo strangolato dall’imperativo del profitto, tanto poco disposto a lasciarci pensare e immaginare il respiro del futuro, ci pare estremamente preziosa”. Già solo l’introduzione, quindi, mi ha ricaricato di energia e interesse, perché mi ha ricordato quello che più amo della poesia, che diventa quasi “ossigeno” appunto, utile (necessaria!) per “respirare”.Il testo si divide in quattro sezioni: 1-Incontrarsi (tentare di uscire dall’isolamento individuale); 2- Pensare (fare delle domande a noi stessi); 3- Leggere e riflettere - I versi che (s)occorrono (ovvero “ascoltare” chi prima di noi ha fatto esperienza del mondo elo ha rappresentato: un’antologia commentata di alcune delle più significative voci poetiche di ogni tempo e luogo); 4 – Scrivere – Dentro la bottega (una riflessione delle due autrici sulla loro scrittura e sul fare poesia).Poesia come ossigeno - Per un’ecologia della parola è quindi un libro rivolto a chi già legge poesia, ma soprattutto a chi non la legge e vorrebbe cominciare (o ricominciare) a farlo, “un libro per lavorare sul vissuto e costruire una comunità pensante, incoraggiare la lettura e la riflessione, favorire la pratica della scrittura intesa come gesto individuale e azione collettiva, intervento sul mondo”.
(pagina in aggiornamento)
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