L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: oltre le ipocrisie (verso la libertà)
Cosa ci renderebbe liberi di poter dire,
senza alcuna limitazione, tutta la verità su di noi, sui nostri pensieri
più sinceri, sui nostri più profondi desideri? Solo l’irrealizzabile
fatto di raccontarli senza essere più in vita, quindi il non doverci più
preoccupare di ciò che dobbiamo apparire perché gli eventi, le
necessità, gli altri (e molto spesso noi stessi) ci hanno imposto
determinati “abiti”. Ed esattamente tutta la verità dicono i 244
personaggi dell’Antologia di Spoon River, personaggi ormai morti ma vivissimi nelle loro “rivelazioni”.
Questo libro, dal successo incredibile e
che secondo Fernanda Pivano è stato il libro di poesia americana più
venduto fino al momento della sua pubblicazione (1914-1916), è l’opera
più famosa di Edgar Lee Masters. Nato il 23 agosto 1868, a Garrett (in
Kansas, ma trascorrerà l’infanzia a Petersburg e l’adolescenza a
Lewistown, Illinois), Masters svolse la professione di avvocato, anche
se era stato il padre a costringerlo a seguire tale carriera,
allontanandolo dagli studi a causa delle precarie condizioni economiche
della famiglia. Ma il forte interesse per la cultura e la scrittura non
lo abbandonò mai. Infatti, nel 1898 pubblicò un primo libro di poesie e
nel corso dei dieci anni successivi espresse le sue idee libertarie in
una serie di saggi e opere teatrali, scritti però con lo pseudonimo di
Wallace Dexter, continuando sempre a lavorare come avvocato. Poi si
accorse (cito le parole di Fernanda Pivano) “che se la vita di campagna
era molto diversa da quella di città, non cambiavano granché gli esseri
umani […] che le passioni sono identiche in tutti, anche se in qualcuno
sono più abilmente soffocate o nascoste. E gli venne in mente di
raccontare la storia del suo villaggio […]. Ma non sapeva decidersi a
scegliere la forma in cui raccontarla”(cfr. l’introduzione all’edizione
italiana dell’Antologia di Spoon River, Einaudi, 2009, p. XII). È il direttore di un giornale, il Mirror di St. Louis, a suggerirgli di leggere l’Antologia Palatina,
una raccolta di epitaffi ed epigrammi greci, ricchi di passioni e
intimità. Nasce così in Masters l’idea di far parlare proprio sotto
forma di epitaffi, quindi semplici iscrizioni tombali, ciascun abitante
di un immaginario villaggio, anche se “immaginario” non lo era
completamente: fu infatti in seguito ai racconti della madre sugli
eventi tristi e fallimentari dei suoi vecchi conoscenti che scrisse la
prima poesia, La collina (dove immagina tutti gli abitanti sepolti uno accanto all’altro “Tutti, tutti, dormono sulla collina…“),
e dopo quella ne seguirono molte altre. Quindi quasi per scherzo scelse
il titolo “Antologia di Spoon River” (Spoon è il fiume che attraversa
la cittadina di Lewistown e per questo spesso nelle guide è questa città
a essere definita la patria di Masters, anche se in realtà furono
Petersburg e il fiume Sangamon a ispirare il nucleo fondamentale
dell’antologia) e inviò il tutto al giornalista di S. Louis che pubblicò
subito le poesie con un secondo pseudonimo (Webster Ford). Le poesie
continuarono a uscire sul Mirror dal maggio del 1914 fino alla
fine dell’anno e ottennero un successo tale da costringerlo a rinunciare
allo pseudonimo. E anche l’intera antologia, pubblicata in un unico
volume nel 1916, continuò ad avere un successo così grande da
consentire a Masters di lasciare la professione di avvocato (nel 1920)
vivendo per qualche anno dei proventi del libro e della sua attività di
scrittore. Le altre sue opere (molte in versi, alcune opere teatrali e
sei studi biografici tra cui quelli su Walt Whitman, Mark Twain e
Abraham Lincoln), non ebbero però la fortuna dell’Antologia, e in seguito Masters, per sopravvivere, dovette ricorrere all’aiuto di amici, per poi morire in povertà (nel 1950).
In Italia questo testo è stato pubblicato
la prima volta da Einaudi, nel 1943, nella traduzione di Fernanda
Pivano (e da allora vi sono state sessantadue edizioni e sono stati
venduti più di cinquecentomila esemplari). Era però stato scoperto da
Cesare Pavese (tramite un amico italo-americano che spesso gli passava
libri di autori introvabili in Italia) che se ne innamorò e convinse
Einaudi a pubblicare il manoscritto della traduzione fatta appunto dalla
Pivano (anche se per ottenere l’autorizzazione dalle censure di quegli
anni, dovette richiedere il permesso di pubblicazione per l’antologia
di un improbabile santo, “Antologia di S. River”, titolo con cui
effettivamente venne pubblicata in un primo momento).
È questa la storia del libro di Edgar Lee
Masters, letto e amato da tantissime persone e il perché lo si può
capire anche dalle parole della stessa Fernanda Pivano: “Non c’è dubbio
che per un’adolescenza come la mia, infastidita dalla roboanza
dell’epicità a tutti i costi in voga nel nostro anteguerra, la
semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso,
rivolto ai piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e impastati
soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza. […] la rivolta al
conformismo, la brutale franchezza, la disperazione, la denuncia della
falsità morale, l’ironia antimilitarista, anticapitalista,
antibigottista: la necessità e l’impossibilità di comunicazione. In
questi personaggi che non erano riusciti a farsi ‘capire’ e non avevano
‘capito’, dal loro dramma di poveri esseri umani travolti da un destino
incontrollabile, scaturiva un fascino sempre più sottile…”.
Leggendo i versi dell’Antologia si
intuisce facilmente la volontà di Masters di portare nella poesia la
vita “vera” con tutte le sue sfaccettature, raccontandoci quindi ogni
aspetto umano, più o meno luminoso, senza nascondere nulla: in questo
modo i personaggi, che dovrebbero essere morti, in realtà ci appaiono
vivi di una vita finalmente sincera. Gli epitaffi che leggiamo in questo
libro abbattono in modo semplice e al contempo magistrale le ipocrisie
di ogni tempo. Ecco perché, forse, la lettura dell’Antologia di Spoon River risulta sempre un’esperienza coinvolgente e attuale. Tra tutte le poesie dell’antologia, è impossibile non citare almeno Il suonatore Jones, che Fabrizio De André trasformò in una canzone, assieme ad altre otto poesie, nell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo del 1971.
Jones è l’unico personaggio, in questa
raccolta di canzoni, a cui De André lascia il nome. Se infatti nelle
poesie originali di Edgar Lee Masters ogni personaggio ha un nome e un
cognome, i titoli delle canzoni di De André sono generici (Un medico,
Un giudice, Un malato di cuore, e così via) sottolineando in tal modo
l’universalità di alcuni comportamenti umani che si possono ritrovare
in ogni luogo e in ogni tempo. Ma, soprattutto, Il suonatore Jones
(personaggio con cui si chiude l’album) rappresenta l’unica anima che
si è salvata (e così intendeva lo stesso Masters): è il solo su quella
collina a non avere rimpianti di alcun tipo, perché è il solo a non aver
rinunciato alla felicità. Per tutta la vita egli ha fatto quello che
sentiva di voler fare: suonava come se fosse una missione e proprio in
questo modo si è salvato. Jones è quindi il simbolo di chi ha il
coraggio di essere sé stesso fino in fondo e non rinuncia a scegliere di
essere libero. Il suonatore Jones è la speranza che Masters ci lascia.