Sì, una camminata calma: che cosa rara… e infatti mi domando spesso: “E se rallentassimo?” – (Articolo originale qui http://caffebook.it/societa-2/item/602-e-se-rallentassimo-piccole-rivoluzioni-quotidiane.html ).
« … “Dimmi prima cosa cerchi” rispose
la tartaruga, e la lumaca le spiegò che voleva conoscere i motivi della
propria lentezza […] La tartaruga cercò con più calma del solito le
parole per replicare e le raccontò che durante la sua permanenza presso
gli umani aveva imparato molte cose.
Per esempio che quando un umano faceva domande scomode, del tipo: “È
necessario andare così in fretta?” oppure “Abbiamo davvero bisogno di
tutte queste cose per essere felici?”, lo chiamavano Ribelle. “Ribelle,
mi piace questo nome!” sussurrò la lumaca».
Luis Sepulveda, in Storia della lumaca che scoprì l’importanza della lentezza
(favola ottima per bambini ma ancora di più per adulti), dà un valore
quasi rivoluzionario alla voglia di rallentare (rispetto alla corsa
forsennata a cui la maggioranza delle persone si sottopone senza porsi
domande).
In effetti, chi tenta di sottrarsi alla
frenesia che caratterizza il nostro tempo è davvero un po’
rivoluzionario, della sua vita, almeno. Un rivoluzionario contro ritmi
che sono del tutto innaturali e controproducenti (certo, io non sono un
capo reparto di fabbrica, quindi non ragiono in termini di produzione):
cosa ci regala infatti tutta questa fretta di correre da un posto
all’altro a fare cose, esperienze, incontri? Di sicuro una certa
dose di irritazione, una vaga scontentezza e la sensazione di non essere
mai, fino in fondo, padroni della nostra vita. Oltre alla conseguente
incapacità di gestire i “tempi morti” senza cadere preda di un
terribile horror vacui: meglio l’iscrizione all’ennesimo corso
per noi o per i nostri figli, piuttosto che non sapere cosa fare in due
ore libere, anche se per arrivare in orario dobbiamo andare ancora una
volta di fretta (e poco importa se ciò che andiamo a far finta
di imparare ci interessa meno dei gusti musicali dei nostri vicini di
casa). Corriamo sempre per arrivare prima, ma… cos’è questo prima? E
prima di chi e di che cosa? E poi, prima si arriva prima comincerà una nuova corsa, se non ci affranchiamo mai da questo meccanismo.
Dovremmo cominciare a riflettere sul fatto che la lentezza
non è un valore buono solo per quelli che “una-volta-si-stava-meglio”: è
il cervello umano a non essere proprio programmato per i ritmi
velocissimi.
In Elogio della lentezza,
Lamberto Maffei, neuroscienziato, affronta in chiave critica e umanista
questo nostro continuo correre (che però ci fa ritrovare sempre allo
stesso punto). La rapidità che domina le nostre vite, ci dice il
professor Maffei, non è così congeniale alla razza umana come
pretendiamo di credere. L’autore dimostra che è proprio la scienza a
dircelo: il cervello è una macchina lenta e se da una parte possiede
meccanismi automatici, istintivi e quindi veloci di risposta
all’ambiente (quelli suscitati da stimoli di sopravvivenza quali
la paura, la rabbia, il disgusto, dove non interviene il dominio della
volontà), è anche vero che esso si costruisce nella lentezza.
In un’epoca dominata dalla comunicazione
visiva e dallo scambio digitale, il cervello diviene quasi un ibrido dei
tanti strumenti tecnologici con cui è chiamato a entrare in contatto
sempre più spesso. Ma le risposte veloci che lo costringiamo a elaborare
non hanno nulla a che fare con i meccanismi automatici di cui si
parlava prima, in quanto quelli sono comunque ancora bisognosi di una
elaborazione lenta.
Inoltre, questo sforzo imposto verso il pensiero rapido diviene alleato
del consumismo, perché, continua l’autore, “anche il consumo deve essere
rapido per cambiare desiderio altrettanto rapidamente e tornare a
comprare”. Si parla quindi di una “bulimia dei consumi” che si associa
alla cronica “anoressia delle idee e dei valori”. Per questo Maffei
riporta in primo piano l’importanza della lentezza della comunicazione
scritta e parlata e la possibilità di pensare con calma, anche se
il pensiero lento è all’apparenza meno comodo. Ecco quindi che
rallentare un po’ i tempi, e i modi che abbiamo di “consumare” la
giornata e le mille attività, diventa difesa del vero ritmo umano: “Il
tempo preciso, né più né meno, che serve per fare le cose per bene. Per
pensare, per riflettere, per non dimenticare chi siamo”, come dice lo
stesso Luis Sepúlveda quando riassume il senso della sua favola sulla lentezza, citata all’inizio.
Il monaco buddhista Thich Nhat Hanh, in
un’intervista del 2014, racconta: “Non molto tempo fa siamo stati
invitati al quartier generale di Google, in California, a insegnare la
pratica della consapevolezza a più di settecento dipendenti. La prima
cosa che abbiamo condiviso con loro è stata la pratica del fermarsi
perché nella società odierna siamo sempre in corsa. Quando siamo in
grado di fermarci possiamo prestare attenzione a tutto quello che sta
accadendo nel nostro corpo e nella nostra mente e questo è il modo in
cui possiamo cominciare a prenderci cura di noi stessi. Nel momento
presente ci sono condizioni più che sufficienti per la nostra felicità.
Abbiamo solo bisogno di fermarci e di riconoscerle per toccare la vera
felicità”.
Personalmente non ho la presunzione di voler convincere nessuno a convertirsi alla
lentezza, ma le parole di questo monaco buddista mi sembrano invece
molto convincenti. Certo, per rallentare bisognerà fare una scelta ed
eliminare qualche impegno dalla nostra vita (sia esso fisico o mentale,
del mondo reale o virtuale, dato da bisogni veri o presunti tali): si
tratta di alleggerire il carico che noi stessi ci siamo messi sulle
spalle (al di là delle cose irrinunciabili) e di conseguenza si
libererà del tempo che prima era necessario a rincorrere o mantenere
quel ritmo troppo veloce. Il tutto ci potrebbe regalare una nuovissima
sensazione di liberà e leggerezza.
Concludo anche questa volta dicendo che,
trattandosi della nostra vita, vale la pena tentare e prendere in
considerazione le parole di quel monaco buddista (certo, sempre con
molta calma…).
I.M.