Di chi sto parlando? Sto parlando di due
artisti, lei poetessa italiana, lui cantautore (folk) inglese, morti
entrambi a ventisei anni (Antonia suicida mediante barbiturici e Nick
per overdose di antidepressivi, ma non è mai stato chiaro se fosse
premeditata oppure no). Due artisti che hanno scritto parole (e musica)
di straordinaria bellezza e intensità, ma che in vita rimasero
sconosciuti ai più o comunque non vennero capiti, e solo dopo la loro
scomparsa sono stati “rivalutati” e giustamente apprezzati . Sto
parlando di Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – 3 dicembre 1938) e
di Nick Drake (Yangon, Birmania, 19 giugno 1948 – 25 novembre 1974,
Tanworth-in-Arden, Inghilterra).
Non sono certo gli unici artisti che (in
ogni epoca) hanno cominciato ad essere apprezzati solo dopo la morte,
ci sono stati tantissimi altri casi simili (e ci si potrebbe anche
porre qualche domanda sui motivi di tutte queste scoperte sempre troppo
tardive): il compositore Johann Sebastian Bach, i pittori Johannes
Vermeer e Vincent Van Gogh, gli scrittori Franz Kafka, H.P. Lovecraft,
Hermann Melville, Goliarda Sapienza, Stieg Larsson, solo per citarne
alcuni.
Ma ho scelto di parlare proprio di
Antonia Pozzi e Nick Drake, accostandoli, perché nei loro versi è
(secondo me) possibile ritrovare la stessa struggente malinconia e lo stesso senso
di solitudine esistenziale, espressi tra l’altro da entrambi con un
tono schivo e delicato, ma assolutamente sincero e incurante dei
modelli imperanti del loro tempo. Le parole che danno vita alle loro
poesie e canzoni sembrano molto spesso fluttuare, quasi evanescenti, in
un’atmosfera rarefatta (la voce di Drake è poi inconfondibile:
evocativa, limpida e al contempo calda, sebbene egli cantasse con un
filo di voce), ma hanno una profondità emotiva innegabile. Profondità
che senza dubbio si deve alla sensibilità accentuata e all’irrequietezza
interiore che essi conobbero nella loro breve vita: tutti e due infatti
soffrirono di depressione che, direttamente o indirettamente, fu la
causa della loro morte.
Antonia Pozzi e Nick Drake furono
entrambi molto timidi, estremamente riservati, e trovarono nella
scrittura un modo per essere veramente liberi, una sorta di rifugio, ma
che non fu mai evasione totale dalle cose della vita: queste infatti
sono il vero oggetto dei loro versi, che rincorrono incessantemente il
senso della vita, della morte, dell’amore. Lievi e profondi allo stesso
tempo, quindi, i loro testi: sia Antonia Pozzi (le cui poesie furono
definite da Montale come “ridotte al minimo di peso”) che Nick Drake
(tutte le canzoni sono piene di lirismo, ma molto solide dal punto di
vista melodico, e assolutamente mai banali) ci portano in un mondo ricco
di domande, alla ricerca di ascolto e accettazione (le loro parole
sembrano urla sussurrate), e tanta, tantissima natura: cieli, albe,
nebbie, sere, lune, stelle, sole. La natura (più limpida in Antonia,
più misteriosa in Nick) è infatti una presenza costante nella loro
produzione poetica e musicale, e viene evocata da entrambi attraverso i
loro occhi eternamente giovani (quasi di bambini, anche se sempre troppo
maturi per la loro età), occhi di chi si sente minuscolo, talvolta
accolto, ma più spesso sperduto, di fronte all’immensità dagli elementi
naturali.
Vediamo per esempio come nei due artisti
ci sia la stessa voglia di innalzarsi verso il cielo, lo stesso
anelito verso l’azzurro:
(…) Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
(Antonia Pozzi da Prati, 31 dicembre 1931)
(…) Have you never heard a way to find the sun (…)
Have you seen the land living by the breeze
Can you understand a light among the trees (…)
Show me what you have to show
Tell us all today If you know the way to blue? (…)
traduzione:
(…) Non hai mai sentito parlare di un modo per trovare il sole? (…)
Hai visto la terra che vive (sotto) la brezza?
Sei in grado di comprendere la luce (che filtra) tra gli alberi? (…) Dillo a tutti noi, oggi se tu conosci la strada verso l’azzurro (…)
(Nick Drake da Way to Blue – dall’album Five Leaves Left, 1969)
Entrambi cominciarono a scrivere testi
da giovanissimi, lei a diciassette anni, lui (influenzato dai simbolisti
francesi) a diciannove (molto tempo prima aveva cominciato a suonare da
autodidatta la chitarra, e divenne infatti anche un ottimo chitarrista)
ma, come si diceva all’inizio, la vera essenza e il valore di ciò che
essi scrissero vennero realmente colti solo dopo la loro morte (molti
anni dopo per Antonia, quasi subito invece per Nick).
Di Antonia Pozzi infatti il padre fece pubblicare, postumo, un unico libro, Parole,
su cui però aveva operato una censura (e di cui aveva addirittura
riscritto alcune parti) perché l’originale non era ritenuto consono
alla memoria che egli voleva costruire per la figlia. È stato un
equivoco durato per molti decenni e che ha fatto sì che la poetessa non
abbia avuto la giusta collocazione nella letteratura italiana. Oggi è
solo grazie al lavoro preciso e puntuale di ricostruzione filologica da
parte di Onorina Dino (una suora dell’ordine del Preziosissimo Sangue di
Monza, che si laureò con una tesi sulla scrittrice, e che venne in
contatto con gli scritti originali custoditi dalla famiglia) che
possiamo leggere finalmente le poesie originali (con l’epistolario e le
pagine di diario) di Antonia, nell’edizione curata appunto da Onorina
Dino e da Graziella Bernabò, intitolata Poesia che mi guardi (2010), e che contiene anche il film-documentario “Poesia che mi guardi” di Marina Spada.
Meno tempo è stato invece necessario per “riscoprire” Nick Drake. Nel 1969 pubblicò il suo primo disco “Five leaves left”
che passò del tutto inosservato al grande pubblico, vendendo solo poche
migliaia di copie (anche a causa delle difficoltà del musicista
nell’esibirsi in concerti e nel rilasciare interviste). L’anno
successivo uscì “Bryter Later“: il suo talento venne in parte riconosciuto dalla stampa, ma non dal pubblico. L’ultimo disco, “Pink Moon“,
pubblicato nel 1972, è considerato il grande testamento musicale di
Drake, ma anche questo non venne notato più di tanto. Nick decise
quindi di abbandonare il mondo della musica e tornò nella casa dei
genitori dove di lì a poco sarebbe morto. Poi, poco tempo dopo la sua
morte (cito da Le provenienze dell’amore – Vita morte e postmortem di Nick Drake misconosciuto cantautore inglese, molto sexy,
di Stefano Pistolini, Fazi Editore, 1998 ): “Nick assunse i contorni di
una magica figura romantica, inimitabile, esotica. Presto le vendite
dei suoi dischi conobbero un’impennata […] Col passare degli anni, il
nome di Drake venne evocato da ogni genere di musicisti, tutti pronti a
citarne la determinante influenza artistica. Nick oggi impersona
l’archetipo della trasposizione estrema della sensibilità in canzone.
[…](Adesso) quasi nessuno sa come, in vita, la sua musica venne
violentemente ignorata e come i valori innovativi del suo discorso
musicale, già presenti al tempo del suo debutto artistico, restarono del
tutto lettera morta. Il martirio artistico di Nick è un caso archiviato di cecità collettiva”.
E infatti oggi, perfino il mondo del
cinema e della pubblicità attinge al repertorio musicale di Drake (in
Italia è stato di recente utilizzato un passaggio di Northern Sky in uno spot di Poste Italiane, ma già nel 2000 la canzone Pink Moon
era stata usata dalla Volkswagen come sottofondo musicale nello spot
del nuovo Maggiolino) e c’è da chiedersi cosa ne penserebbe lui (che
rifuggiva perfino le interviste) di questo fatto.
In conclusione non posso che invitare alla lettura della poesia di Antonia Pozzi riportata sotto e all’ascolto di Northern Sky (dall’album Brayter Layter, qui il link https://www.youtube.com/watch?v=S3jCFeCtSjk) di Nick Drake: due prove che rendono evidente più di tante parole la struggente bellezza della loro creazione artistica.
Lieve offerta
Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera
come le estreme foglie
dei pioppi, che s’accendono di sole
in cima ai tronchi fasciati
di nebbia –
Vorrei condurti con le mie parole
per un deserto viale, segnato
d’esili ombre –
fino a una valle d’erboso silenzio,
al lago –
ove tinnisce per un fiato d’aria
il canneto
e le libellule si trastullano
con l’acqua non profonda –
Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera,
che la mia poesia ti fosse un ponte,
sottile e saldo,
bianco –
sulle oscure voragini
della terra.