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21 marzo 2024

Il paradosso della poesia

 

La poesia, ultimamente, è molto celebrata, è stata rivalutata, viene insegnata ovunque, è molto citata (usata perfino – benché spezzettata − come didascalia di selfie in déshabillé), eppure, in genere, chi scrive (o prova a scrivere) poesie si vergogna a dire che scrive poesie.  Come mai?

Ma chi se ne importa! – direte voi – Sono problemi di quelli che scrivono poesia: hanno voluto la bicicletta…?

***

Fare poesia

‘Devi abitare la poesia
se vuoi fare poesia’.

E cosa significa ‘abitare’?

Significa portarla come un abito, indossare
le parole, sedendo nella luce più netta,
nella seta del mattino, nel fodero della notte;
un sentire spoglio e frondoso in un’aria che sorprende;
familiare… insolita.

E cosa significa ‘fare’?

Essere e diventare il clima mutevole
delle parole, il servo della musa a condizioni
atroci, intraprendere viaggi sopra voci,
evitare la collina dell’ego, il pozzo dell’afflizione,
la sirena che sussurra stampare, successo, stampare,
successo, successo, successo.

E perché abitare, fare, ereditare poesia?

Oh, è la commedia condivisa della peggiore
benedizione; il suono che guida la mano;
la parola vitale che scorre da una mente all’altra
attraverso le stanze lavate dei sensi;
una di quelle stregate, indifendibili, impoetiche
croci che pur dobbiamo portare.


Anne Stevenson, da Le vie delle parole, Interno Poesia Editore, 2018, traduzione di Carla Buranello

 

***

Making Poetry

‘You have to inhabit poetry
if you want to make it.’

And what’s ‘to inhabit’?

To be in the habit of, to wear
words, sitting in the plainest light,
in the silk of morning, in the shoe of night;
a feeling bare and frondish in surprising air;
familiar…rare.

And what’s ‘to make’?

To be and to become words’ passing
weather; to serve a girl on terrible
terms, embark on voyages over voices,
evade the ego-hill, the misery-well,
the siren hiss of publish, success, publish,
success, success, success.

And why inhabit, make, inherit poetry?

Oh, it’s the shared comedy of the worst
blessed; the sound leading the hand;
a wordlife running from mind to mind
through the washed rooms of the simple senses;
one of those haunted, undefendable, unpoetic
crosses we have to find.

°ascoltando Adam Baldych, Paolo Fresu – Poetry  –  https://www.youtube.com/watch?v=AJap8HP841s


18 novembre 2022

“The show must go on”? (No, non sempre)

 




Mio padre ha amato profondamente il calcio (quello sano), ha vissuto di e per il calcio (quello del  fair play), e sono certa che questi mondiali indegni e vergognosi (Qatar 2022), questi mondiali che hanno calpestato consapevolmente la dignità e la vita di migliaia di lavoratori sfruttati, non li avrebbe mai guardati, boicottando così uno show che qualche volta si dovrebbe anche fermare.

“(…) Ci sono nel calcio dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goal è il calcio più poetico.

Anche il “dribbling” è di per sé poetico (anche se non “sempre” come l’azione del goal). Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai (…).

Pier Paolo Pasolini, da “Il giorno”, 3 gennaio 1971

°ascoltando Francesco De Gregori – La leva calcistica della classe ‘ 68https://www.youtube.com/watch?v=lETVilXSfNY




Chi mente?

     Capita che a volte non si capisca chi manipoli di più la realtà:  la memoria che parla a noi   o noi che vogliamo credere a lei?  ***  ...